Scritti notturni

Il mio quarto e ultimo racconto (incompleto)
17-18-19 anni


Maggio serotino


Prima parte
Sembrava passata una vita da quella estate al mare.
Stesa sul letto, Alice teneva fra le mani la foto scattata dalla vecchia polaroid di papà. Si raggomitolò come una gatta e si portò l’immagine vicino vicino gli occhi, vicino vicino da non potere veder altro che quella. Faceva sempre così quando si sentiva sola: si isolava dal presente circostante  e si perdeva incantata in quell’attimo felice rimasto intrappolato nel tempo. A volte socchiudeva gli occhi e le sembrava ancora di sentire il calore della sabbia sotto i piedi, il profumo dolce di mamma quando stava bene e il vento salmastro scompigliarle i capelli.  Poi riapriva gli occhi e si smarriva accarezzando con lo sguardo i contorni del fratello,  le onde dei suoi neri capelli che cadevano ribelli sulla fronte e rendevano ombroso lo sguardo. Incastonati nel suo pallore adolescenziale due occhi blu, più blu del mare in cui  li aveva visti tante volte perdersi. Lei bambina si divertiva a fissarlo in quei momenti e quando il fratello se ne accorgeva, rimaneva un attimo contrariato, poi Alice gli sorrideva, lui la sollevava di peso in aria e la straziava di baci, lei che scalciava e rideva.
Alice era stata una bambina precoce, non aveva neanche cinque anni che già sapeva leggere e scrivere. Non aveva molte amiche. Non perché fosse antipatica o introversa, semplicemente invece di giocare con le barbies, preferiva leggere la versione per bambini dell’Odissea che le aveva regalato suo fratello per il compleanno. Si era riletta quel libro almeno un centinaio di volte: le avventure di Ulisse - pensava - non dovevano essere diverse da quelle che viveva suo fratello quando, seduta sul bagnasciuga, lo vedeva scomparire all’orizzonte su una piccola barca a vela, regalo dei genitori per i suoi diciassette anni. E quando davanti al sole arancione del tramonto rivedeva spuntare le vele azzurre gonfiate da un bel ponente di poppa, saltava di vera gioia e sbracciava e urlava come un’ossessa per salutare il suo eroe tornato vittorioso. Una sera tornò sì vittorioso, ma con un brutto taglio sopra il sopracciglio. Alice lo guardò un poco preoccupata - Non è niente…è stato il boma- la rassicurò con un sorriso affettuoso. Dietro quella strana parola- che stimolò la fervida immaginazione di Alice- doveva senz’altro celarsi l’identità di qualche terrificante mostro marino che a confronto Scilla e Cariddi erano niente. Ma questa pur plausibile fantasia non reggeva, perché se gli orridi tentacoli della bestia erano riusciti a raggiungere perfino l’accorto fratello, la barca doveva essere belle che in pezzi. Allora dopo lunghe fantasticherie pomeridiane in pineta e dopo meticolose riletture della sua Bibbia di infanzia, Alice giunse soddisfatta alla certa conclusione che Boma era un ciclope, il più brutto e cattivo dei ciclopi fratelli di Polifemo, e per vendicarlo si mangiava tutti i ragazzi coraggiosi che passavano dalle sue parti in barca a vela. Ma suo fratello mica era uno sprovveduto come gli altri- lui il libro l’aveva letto di sicuro- e doveva averlo astutamente accecato e ingannato, memore dell’ulissiaco stratagemma.
Quella stessa estate verso agosto, Alice si ammalò di una malattia sconosciuta. Nel giro di pochi giorni costretta in un letto di ospedale Alice lottava contro la morte. I medici dicevano che stavano facendo il possibile, che la situazione era grave ma che avrebbero presto trovato la cura. Passarono i giorni, passarono i mesi e la situazione peggiorò ulteriormente. I medici dissero che salvo miracoli  Alice non avrebbe visto l’inizio della nuova estate.
Quel giorno era maggio, i gabbiani volavano bassi. Le raffiche di libeccio frustavano le imbarcazioni del porticciolo, che ondeggiavano paurosamente l’una accanto l’altra. Ingaggiando epici duelli  le scricchiolanti alberature metalliche risuonavano ancestrali melodie di ingannevoli sirene. Sul mare adirato cominciava a pungere fitta fitta una pioggia ininterrotta,  gravava pesante il piombo del cielo. Baleni di luce elettrizzavano l’orizzonte. In fondo una barca. Poi, solo una vela. Infine una lingua di pallido azzurro. La fine del mare era vicina, l’azzurro scomparve schiacciato tra cumuli di nubi e schiaffi di onde.
Alice si risvegliò qualche giorno dopo, una serena mattina di inizio giugno. La malattia se ne era andata in pochi giorni così come era venuta, senza motivo.


-Michele dov’è?-


Come il padre la guardò in quel momento Alice non se lo scordò mai. Il babbo piangeva, ma la bambina non capiva se era gioia o dolore quello che usciva con le lacrime.


 -Michele non c’è più.-


- E’ partito con la barca?- Pronunciò quelle parole con una semplicità che ricordando adesso, si stupiva.


- Sì, è partito...- Il padre le carezzava i capelli sparsi sul guanciale, ma non ebbe il coraggio di finire.


Anche Alice era dispiaciuta perché suo fratello era partito, ma non capiva perché il padre dovesse piangere così.
Passò quell'estate ad aspettare sulla battigia con gli occhi fissi all'orizzonte.
Tornata poi in città, rimase comunque sicura che presto avrebbe riabbracciato suo fratello. Ne era convinta: prima o poi - quando meno se lo sarebbe aspettato -  mamma e papà l’avrebbero chiamata, sarebbero partiti tutti e tre per il mare e finalmente avrebbe rivisto quella vela azzurra  rispuntare trionfante da un tramonto arancione. 
Gli anni passavano ma Alice riusciva a ricacciare ogni paura, con l’ostinazione che solo certi bambini possiedono.
In  fondo - diceva tra sè - Ulisse era stato in mare per dieci interi anni. Spesso anzi si era meravigliata di veder tornare il fratello la sera del giorno stesso in cui partiva: credeva che per compiere una delle sue epiche imprese ci volesse ben più di un solo pomeriggio.


Alice strinse a sè la foto un'ultima volta. Erano passati esattamente dieci anni da quel temporale di maggio.
Da Troia, Ulisse dopo dieci anni era tornato. Suo fratello no.
Dopo dieci anni, su quella foto Alice versava le prime lacrime.
Alice non era più una bambina.






Seconda parte
Mamma era sempre stata debole di nervi.
La malattia della figlia prima e la scomparsa di Michele poi, ne avevano “debilitato la salute psicofisica in maniera irreversibile cagionandole depressione cronica, isteria e nevrosi ossessiva”. I bambini capiscono molte più cose di quanto si immagini. E anche se alcune cose non le capiscono, molte volte se le ricordano, per capirle quando sono più grandi.
Zoloft, Surmontil, Dalmadorm…quante misteriose parole erano placidamente sbuffate dalla voce atona dello psichiatra.  Con quelle strane formule magiche Alice avrebbe potuto ricominciare a sognare mille mondi. Non lo fece.
Ma mamma adesso stava distesa là, imbottita come sempre di psicofarmaci e sonniferi, nel mezzo del lettone, in uno stato oscillante tra sonno e oblio, quasi comatoso. Giaceva supina sul lenzuolo appiccicoso, un seno le si era scoperto, le braccia spalancate: arresa alla vita, dormiva.
Alice stava in punta di piedi sull’uscio della stanza. Fioca luce passava polverosa nei buchi delle serrande chiuse. L’aria umida, calda, appesantita sapeva di chiuso e di sonno. Alice quasi in apnea ascoltava ipnotizzata i respiri della madre, tutti ugualmente profondi, sincronizzati perfettamente al battito del suo cuore. Si sentiva di nuovo quieta, calmata dal calore e dai ritmi materni.
Era come in bilico, tirata da due invisibili tensioni, strattonata da due forze uguali e contrarie rimaneva tuttavia immobile, potenzialmente carica. Abbandonarsi all’inerzia ed accoccolarsi accanto al ventre materno, chiudersi al mondo come un riccio in pericolo, era una possibilità.
Ma Alice fuggì.
Passò dal bagno ad asciugarsi gli occhi, ancora un poco tumidi di lacrime. Correndo via, intravide il pacchetto che papà teneva sempre sullo sgabello accanto al lavandino. Quando ogni pensiero ti chiude in un vicolo cieco di tristezza non puoi che smettere di pensare; agire quindi, in preda ad una leggera istintuale follia. Così Alice - che fumare le faceva schifo - ne sfilò una sigaretta e se la mise insieme all’accendino nella tasca sinistra dei jeans. Infilò ai piedi le converse nuove di zecca e si lasciò la porta di casa alle spalle. Era fuori.
Quella sera era maggio, Alice aspirava ampie boccate di fumo azzurrino.
Nessun rumore sfidava la pace del maggio serotino. Il silenzio non assordava, non era infatti vero silenzio. Ovattati giungevano suoni di vita urbana e di borgata: un sottofondo pacifico, perché lontano, che cullava il sole, accolto da tiepide lenzuola all’orizzonte. Dagli alti piani di anonimi condomìni, un poco di brezza leggera portava con sé nenie familiari: rimestii di piatti e di stoviglie, fatiche di buone massaie: si nutrivano i loro cuccioli, esausti ma contenti; voci di telegiornali, piccoli borghesi ognuno con il proprio scettro in mano godevano sul divano il riposo del giusto; sommessi ritornelli di musica pop, giovani scrivani fiorentini studiavano e sognavano avventurosamente nei loro cantucci segreti. Da larghe strade ignote, si sentivano sfrecciare automobili e motorini truccati, ma attutiti e discreti giungevano i loro echi, messaggi inascoltati di un mondo remoto, forse inesistente. Non era più abbastanza giorno per sentirsi indifesi, non era ancora abbastanza notte per sentirsi soli. Un lampione verde illuminava di luce arancione l’alto cancello del parco che grigio si stagliava di fronte ad Alice.
Un po’ nauseata, lasciò cadere sul selciato la cicca non finita, andò a slucchettare la bici dal palo sotto casa ed entrò nel parco, da una porticina sulla destra ancora aperta. Il parco, se così poteva essere chiamato, era più un piccolo bosco e si stendeva su una delle colline che morbide e aristocratiche sovrastavano il quartiere di Alice, acquattato più in basso, in una sorta di conca. Era anticamente la villa di una nobile casata cittadina, adesso luogo di gioco per bambini spensierati e nido d’amore per giovani coppiette. Ma a quell’ora fortunatamente non c’era nessuno, Alice pedalava rapida e regolare arrampicandosi sui tornanti del parco. Tra gli olmi e le robuste querce filtrava poca luce, Alice sentiva soltanto il cigolio della catena e il crepitio delle ruote sulla ghiaia. - I…- si mise a canticchiare per scacciare i cattivi pensieri – I wish I could swim...- In cima alla salita, svoltò a destra ed uscì dal parco da una porticina metallica, infilando una strada collinare.- …Like dolphins - A destra e a sinistra, oltre ai muretti scalcinati coperti di edera, calava la sera su una campagna pittoresca- …Like dolphins can swim - Uliveti seguivano giardini, e poi pinete e orti di pomodori e ancora sontuosi cancelli nascondevano impenetrabili ville da sogno, dotate perfino di nome. - Though nothing…nothing.. will keep us together- Chissà com’era vivere lì? Da grande se fosse diventata ricca le sarebbe piaciuto possederne una. “Se potessi comprarne soltanto una, quale sceglieresti?” le tornarono in mente le parole di Michele quando andavano insieme a sbirciare nel porticciolo gli yacht dei ricconi. - We can beat them…- L’ultima salita era la più dura. Alice si inerpicava a fatica spingendo con forza i pedali, ansimava -…for ever and ever – Forse era colpa della canzone oppure della notte imminente, Alice si sentì tutto un tratto terribilmente sola. –Oh we can be heroes..- urlò. Perché la vita era stata così cattiva con lei? Prima Michele, poi la mamma…
Alice non si era mai sentita una persona sfortunata, era sempre stata una bambina allegra e anche adesso che era più grande era una di quelle persone che ispirano simpatia a pelle, solo per un modo singolare di stuzzicarsi i capelli o di modulare la voce. Ma quella improvvisa presa di coscienza le mozzò quasi il fiato -…just for one day- La strada adesso scendeva, ma Alice pedalava sempre più forte, disperatamente. Percorreva quelle curve come fanno i ciclisti, esterno interno esterno, ad ogni svolta attraversando pericolosamente la strada. La bici vibrava per la velocità, le mani non le teneva sui freni, sfidava la sorte avversa. Un innocuo sassolino fece slittare la ruota sottile. Alice tentò di mantenere il controllo della bici, ma nel tentativo non si avvide che la strada curvava di novanta gradi: tirò invece a dritto. La bicicletta si spiaccicò sul muretto di cinta, Alice sobbalzata dall’impatto, levitò dal sellino e abbandonò la bici alla terra, prendendo il volo. Nel vuoto compì una mezza capriola e si ritrovò con la schiena verso il basso e lo sguardo verso l’alto. Profumi di maggese e menta selvatica inebriavano l’aria, un balsamo che le si scioglieva nell’animo; dovunque soltanto nuvole e etere, etere e nuvole danzanti in una volta immensa, protettiva, rassicurante. Non aveva mai fatto caso a quanto fosse bello e grandioso il cielo, traboccante di compassione per il proprio destino e per il destino di quegli impotenti esserini che simili a lei si struggevano per avere un briciolo di felicità, sentiva che ogni uomo avrebbe avuto bisogno di vederlo, anche solo ogni tanto, ma di vederlo davvero questo grandioso cielo: ognuno si sarebbe riconciliato col mondo e avrebbe potuto finalmente affermare convinto: sì, io amo la vita. L’istante più bello -  forse questo pensiero calava il sipario sulla sua breve esistenza – dev’essere sicuramente il penultimo. Peccato non poterlo raccontare a nessuno.
Un brivido la percorse dalla nuca alle vertebre, là dove tra un attimo avrebbe sentito sfracellarsi una roccia o conficcarsi i rami di un albero. Non ci fu nessuna fitta lancinante, nessun atroce scricchiolio di ossa frantumate: Alice rimbalzò come un fagotto su un morbido montarozzo di foglie secche e si depositò mollemente sull’erbetta bagnata. Gli uccellini continuavano a cinguettare noncuranti, l’umidità che percepiva la sua schiena era segno di vita. Alice scostò i capelli che le erano finiti sopra il viso. L’istantanea che Alice scattò con il primo sguardo, fotografò due occhi. Due occhi blu, di un blu più blu del cielo che li circondava, in cui lei si era completamente immersa pochi attimi prima, due occhi blu come da dieci anni li vedeva soltanto nei sogni, o nei ricordi. Sembravano proprio…- ma no, non poteva essere – eppure erano proprio uguali spiccicati a quelli di…


 
- Michele? -


 
(Incompleto...)




 


Poesia
18 anni




Autunno, letargo.

Rinascerai
Con tutto e a Maggio.
Ama, farai
ciò che più vuoi:
sì sorrideva
la Primavera.


Ora sonnambulo
chiudi alle spalle il portone
vaga tra polveri buie
e l’ombra tua rintana
Secrete prigion ti avranno.


In te castello arroccato
tornano vecchi fantasmi
narcisi tediosi
lasciatemi in pace.












Il mio terzo racconto
17 anni

Ninna Nanna

12/02/08


Michele sono io, la professoressa mi ha dato da tenere questo diario per tre giorni, ma si è raccomandata perché fosse in terza persona, così ha detto che si imparano a scrivere le storie.
A Michele non piacciono tanto le storie, preferisce le fiabe. Perché le fiabe sono solo fiabe e puoi scriverci tutta la verità, tanto puoi fingere sia solo fantasiosa finzione.
Michele è brutto, basso e grasso, ma i cioccolatini della nonna sono buoni. Michele ha quattordici anni e mezzo. Ma Michele non è stupido, almeno crede, almeno questo. I suoi compagni lo credono stupido e lui si comporta da stupido, non può fare altrimenti. Perché più si arrabbia e più cerca di far capire che non lo è e più lo sembra. E la sera quando il buio cala ed è solo con se stesso alla fine ha paura di esserlo, o di esserlo diventato. E’ quella voce che lo tradisce, stupidamente nasale e stridula. Ah mondo crudele, menomale che c’è Luisetta.
I suoi compagni direbbero che si fa le seghe mentali, Michele direbbe che gli piace pensare, sognare, evadere un po’ dal mondo, dalle persone, che proprio non le capisce, respirare.

13/02/08

Michele ama Luisetta dalla terza elementare. Quelli zigomi un po’ all’insù, quel sorriso un po’ così, quell’atteggiarsi un po’ da donna.
Ah la sua Beatrice, la sua Laura, la sua Angelica! Eppure si chiama Luisetta, che buffo nome, gli piace anche per quello. La ama idealmente, in fondo all’anima, cieli immensi e immenso amore.
E poi…
E poi quelle tette, Dio…quelle tette…Luisetta…
Michele si sta masturbando, la destra scrive, la sinistra va tranquilla, automatica, avanti e indietro, avanti e indietro.
Michele è andato in bagno a lavarsi, ora sta bene, è felicemente triste, si fa schifo ma viva l’endorfina. Ha fame.
E’ l’ora del sogno, anzi delle buone intenzioni.
Domani, ha deciso. Michele va da Luisetta e glielo dice. Sì, sì…lo sa che stava col Secco, ma l’ha mollata no?
Il Secco è così bello, alto, biondo ma è pure stronzo fino al midollo e Luisetta lo sa di certo.
E poi Michele ci tiene a Luisetta e forse Luisetta anche un po’ a Michele.
Ci tiene davvero a Luisetta, mica come il Secco, che la fa piangere.
E questo Luisetta lo capisce di sicuro.
Sì, lo capisce.
Domani glielo dice, domani si rinasce

14/02/08

Michele non ha più voglia di scrivere.
Michele ha paura che adesso è troppo. Luisetta è tanto cara. L’ha vista ancora oggi ed è sempre più bella. Michele gliel’ha detto,
lei ha riso. Michele gliel’ha detto serio serio, lei ha riso forte forte. Che bella Luisetta quando ride. E’arrivato il Secco e lei non c’era più.
Michele è rimasto lì a ridere.


Io sono l’Angelo custode di Michele e sto seduto sul suo letto. Una sedia è caduta in mezzo alla stanza, accanto il diario, aperto, l’ultima pagina bagnata ancora di sperma e di lacrime. Io sono l’Angelo custode di Michele e lo osservo. Michele penzola in mezzo alla stanza. Com’è buffo, fa la linguaccia, sembra un bambino. Michele penzola dolcemente in mezzo alla stanza, avanti e indietro, avanti e indietro. Io sono l’Angelo custode di Michele e lo abbraccio.

“Ninna nanna ninna oh,

questo bimbo a chi lo do?”










Il mio secondo racconto
15 anni

La Moira

-Cioè..cioè Prof, in che senso?- Balbettò la ragazza, prendendo tempo.
 -Ma quale senso e senso. La domanda è precisa: definiscimi il concetto di Moira.- ripeté a muso duro la professoressa, che intanto rovistava infastidita nella sua valigetta verde alla ricerca di chissà che cosa.



-Eh.. la Mo…la Moira..diciamo..praticamente- Continuava la studentessa incespicando ad ogni parola-


-Signorina Raimo...signorina Raimo..- Alzò il tono di voce la prof, spazientita -anche oggi è impreparata, anche oggi lei sa di non sapere.- Guardandola con un mezzo sorriso di superiorità, alzò il capo beffarda e disse con voce acida- Lo sa o no di non sapere?-
 -S..sì...- Si arrese la ragazza totalmente confusa.-sì, sono impreparata.-
 -Bene, rimanga qua e le dirò il suo voto- E trovò finalmente nella valigetta il registro giusto, lo aprì soddisfatta sulla cattedra, sempre con quel sorriso maligno.

Intanto, pensando alla tremenda noia di questo mondo, se ne stava seduto un suo compagno, stravaccato, nel banco davanti la cattedra, masticando svogliatamente il tappo blu, della penna del compagno, osservando indifferentemente la scena che gli si proponeva. Una scena come tante altre, la prof di filosofia concentrata col capo chino, scriveva i voti sul suo registro mentre la classe se ne stava beatamente a fare casino finché poteva. Lui era lì seduto, immobile per inerzia. Se lo avessero spinto giù dalla sedia sarebbe caduto senza pararsi nemmeno.
Davanti, stava in piedi voltata verso la cattedra, la ragazza. Era carina, dai bei capelli scuri che cadevano ondulati sulle spalle un po’ curve. Il pensiero di quella indifferenza disarmante, del fatto che tutto era più o meno prevedibile tornò ad assilare la mente del ragazzo. Suonata la campanella sarebbe tornato a casa… ah, forse nei pochi minuti che mancavano l’avrebbero interrogato.. no, mancava troppo poco. Sarebbe tornato a casa a piedi con gli amici di sempre o di mai, pranzato, fatto il riposino, i compiti, la tele, la cena, sonno e di nuovo scuola. E così, per altri cento giorni e cento notti. E poi l’estate, nient’altro che svogliata attesa dell’inverno. E poi, ancora la scuola. E così per un’altra decina d’anni. E poi il lavoro. Chissà cosa avrebbe fatto? Questo forse doveva incuriosirlo? No, certo che no… troppo faticoso pensarci, troppo faticoso pensare di fare qualcosa che non fosse abitudinario, prevedibile. Avrebbe fatto l’impiegato, sveglia alle 7, barba, lavoro in cravatta fino alla sera e a dormire. E così per altri 30 anni. E poi la vita da pensionato, routine senza lavoro…non male.
Questa cupa previsione non durò più di un battito di ciglia, quindi sopraggiunse un altro pensiero, acceso da una scintilla di ribellione verso il destino ineluttabile che incombeva davanti alla sua giovane età. Tornò a guardare la ragazza. Rivolti verso di lui, sembravano invitarlo a toccarli, i suoi bei glutei, che immaginava tondi e sodi, un poco accennati nei jeans sformati. La stessa inerzia che lo aveva portato a rimanere muto e immobile per un lasso indeterminato di tempo a pensare senza muovere un dito, la stessa inerzia che lo aveva spinto a vivere fino ad allora, giusto perché aveva iniziato, lo condusse a quel gesto, primo di una lunga serie di gesti ribelli contro la morsa fatale del fato. La scintilla divenne fuoco, la mano si allungò e indisturbata palpò convintamene il gluteo destro della dolce fanciulla. E lui si mise a ridere sguaiatamente, belluino e tutta la classe lo stava a guardare, sghignazzando. Invece la prof, che allo schiamazzare dei compagni aveva alzato la testa per mettere a tacere il casino che si era creato, non sembrò per un momento accorgersi di ciò che accadeva. Poi si voltò di scatto nella direzione verso cui tutti guardavano, verso la mano che impunita palpeggiava, rimase a bocca aperta, non riuscendo ancor a capacitarsi della cosa e provava a urlare ma riusciva solo ad aprire e chiudere meccanicamente la bocca come un pesce, emettendo un sibilo che al ragazzo ricordò tanto la pentola a pressione di sua nonna. La ragazza, dopo qualche interminabile secondo allontanò la mano del ragazzo, scossa, il volto rosso di vergogna ma coperto dalle mani, si rifugiò nel banco in fondo all’aula.
Il ragazzo sentiva nelle sue mani, anzi, nella sua mano, il potere di cambiare il destino in modo straordinario. Nessuno si sarebbe mai aspettato qualche minuto prima, che dico.. qualche secondo prima ciò che sarebbe accaduto. Ed era bastato un solo gesto, un semplice movimento dei muscoli del braccio in avanti.
Probabilmente, ma lui questo lo pensò molto dopo, quando ormai era adulto e forse faceva l’impiegato...probabilmente se si fosse trovato davanti, invece del bel fondoschiena, il petto di un buon uomo e avesse avuto in mano un coltello, non avrebbe indugiato neanche un secondo di più a pugnalare fino alla morte la persona innocente.
Ma in quel momento si era sentito veramente vivo, per un momento si era sentito un dio, si era sentito...si era sentito la Moira...
..la Moira in persona.






Il mio primo racconto
14 anni


Asfalto
Stava tornando a casa, pedalando su per quel interminabile falsopiano del trafficato vialone che congiungeva la squallida periferia della sua città, troppo piccola per definirsi metropoli e troppo famosa per ritenersi città qualunque, ad un paese,ormai diventato una modesta cittadina, che si ingrandiva, mangiando quella poca terra coltivata, che lo separava dal centro urbano principale. Sui  pochi campi, gelati dall'inverno anche se a lungo coperti da spessi teloni di plastica nera, era sceso ormai il freddo buio. Il ragazzo arrancava sulla sua pesante  bicicletta, dai lucidi colori blu, bianco e nero, che nonostante l'aspetto e le sue linee, non era affatto sportiva. Allo stesso tempo, voltava lo sguardo al lato della strada,al di là del guardrail, verso la rete metallica di colore verde, inscurito dall'ombra della notte, che lo teneva lontano dalla terra umida, da cui, fra non molto per fortuna, sarebbe nata una fresca erbetta su cui egli immaginava, come in sogno, di potersi rotolare e ridere un giorno e non pensare a niente, se non godere del contatto di questi giovani e fragili steli, che gli pareva già di toccare. Ma la verità era un altra:la rete lo incanalava forzatamente in questa strada asfaltata, dove tutti correvano, rombando e magari soffrendo, ripensando alle torture quotidiane. Quando il suo sguardo tornava all'asfalto tristemente grigio, gli prendeva una tale malinconia, tanto accresciuta dagli spensierati sogni precedenti, che gli sfuggiva una lacrima...ma forse erano solo le lenti a contatto, che gli correggevano una discreta miopia, o il vento sferzante che gli arrossava gli occhi.

Semaforo rosso. La bici si ferma, con un sobbalzo. Il ragazzo, ansante, si gira  e guarda le macchine che si accumulano dietro di lui. Non c'è neanche una bici,  pensa. Si sente diverso e solo,  accerchiato da moto che incalzano e auto che suonano...Sente lo sguardo di tutti, che gli sta addosso. Forse è solo una sensazione, ma lo opprime. Si aggiusta la sciarpa nera, inumidita da qualche  goccia di sudore; il berretto nero e trae, dal caldo piumino nero, le chiavi del lucchetto. Ci giocherella un po', fingendo noncuranza. Semaforo verde.Sollievo. La bici inizia a correre e acquista velocità: inizia una breve discesa che termina con un altro semaforo rosso. Un lugubre pensiero gli passa veloce per la mente. E se al semaforo non si fermasse? Cosa lo lega all'asfalto? Solo la sua bici? Cosa gliene importa della sua vita? A volte chiaro, più spesso scuro, ma tutto è grigio. Perfino i suoi occhi sono di un colore grigio, intenso, quasi che il maledetto colore, tante, troppe volte osservato, abbia inquinato anche la sua iride. Non gli piace il grigio, non gli è mai piaciuto. Preferisce il nero, ben più definito, preferisce il nulla all'insignificante. Adesso il ragazzo pensa alla sua morte. Un sorriso ironico, che nessuno può vedere, gli si stampa sul volto: pensa ai suoi funerali, a quanto diventerà importante in quel giorno, alle tante persone che piangono per lui, morto così giovane, così felice (magari,  pensava). Così oltrepassa tranquillo la luce rossa del semaforo. E' felice, ancora più felice quando pensa alle lacrime di tutti, vaga veloce nel ricordo di tutti quelli che ha conosciuto fino a quando l'immagine della madre  non occupa tutto il suo pensiero. No, non ci riesce. L'autocommiserazione dei suoi congiunti e di sè, dirompe improvvisamente. Non ce la fa a sopportare il pianto sommesso della madre, che inginocchiata sulla tomba, gli parla come fosse ancora vivo. Non ce la fa a veder le calde lacrime rigare il volto materno, rosa. Forse c'è un po' di rosa in questo grigio. Forse ci sarà fra poco, almeno. Forse. Non puo' rischiare e sterza bruscamente la sua bici, con un fremito di commozione. Troppo tardi. Una station wagon grigio-metalizzata piomba addosso a lui e alla povera bici, che fedele aveva anche adesso seguito il suo padrone. Il ragazzo giace al ciglio della strada. Tutto finalmente è fermo, muto. Solo il vento scompiglia i capelli del ragazzo a terra. Alle macchine rimane il dubbio di aver visto morire un ragazzino, all'autista quello di essere diventato un innocente assassino, al ragazzo di aver cambiato il grigio in rosa o in nero. Forse niente è vero, niente è bianco o nero. Forse esiste solo il dubbio, grigio, come l'odioso asfalto. 

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